La sinistra italiana ha sempre rifiutato consciamente ed inconsciamente l’idea di avere un leader. Qualcuno obietta che questa è una posizione essenzialmente dovuta ad una sorta di trauma infantile freudiano che ha origine dall’esperienza storica del Fascismo che a lei le fu avverso. In realtà la sinistra italiana non ebbe condottieri neanche mai prima di quel ventennio, anzi l’unico uomo di carisma che ebbe fu per paradosso Mussolini, ex socialista massimalista che fondò un suo partito trovandosi in disaccordo per le posizioni del Partito Socialista (allora unico partito di sinistra in Italia) nei confronti della Grande Guerra. A Matteotti si può rendere omaggio per il coraggio che ebbe nel delineare i soprusi del nascente regime, a Gramsci per la visione culturale che avrebbe permeato le strutture sociali tali da rendere possibile l’affermazione di un partito comunista in un paese occidentale, Togliatti può invece essere inteso come il riporto di un leader che viveva oltre la cortina di ferro, a Berlinguer va riconosciuto il rispetto e l’onore per la sua visione morale della politica, visione su cui la sinistra dagli anni ottanta ad oggi si è impantanata, e che oramai è diventata il suo unico leit motiv.

Nel suo non aver leader, e nel trovarsene di fronte spesso degli altri, c’è la causa verso la sua indole più masochista: la frantumazione, che assume oramai i tratti di un malessere secolare. Chi sta a sinistra, prevede sempre che ci sia un modo di essere sempre più a sinistra ed efficace di quello che come modello riceve più consensi elettorali. C’è sempre una sinistra al di là da venire, una sorta di aldilà che fa da contraltare all’aldiquà. C’è chi sa fare meglio l’opposizione qualora non si governi, e chi è più intellettualmente preparato qualora si debba operare stando nella “stanza dei bottoni” (come la sinistra chiamava negli anni 60/70 le stanze dei poteri). A ciò si somma, la palese e manifesta tendenza suicida a non generare nel suo seno dei leader e a maciullare quei pochi che in nuce sembravano esserlo.

La sinistra intellettuale, quella impegnata nei giornali, nelle pubblicazioni, nelle riviste, nei saggi, nei libri (quella cioè che non mette mai la faccia davanti alla competizione elettorale) teorizza sempre la paura per un capo, per il condottiero, e pigiando questo tasto, non si accorge che fa perdere consensi alla sinistra politica che si propone come classe dirigente, disorientando il suo elettorato (ma anche quello in generale) sempre orfano di una famiglia che non c’è e che così facendo non potrà mai esserci. Purtroppo le figure storiche di riferimento in alcuni determinati periodi storici (come questo) sono necessarie per il governo del paese, e la tendenza al “principe”, che lo si voglia o no, che faccia accapponare le pelli agli intellettuali di sinistra che vivono nei centri chicchettoni e snob delle grandi città italiane, è una cosa assodata per le genti italiche(strano che chi abbia studiato tanto non l’abbia ancora capito). Tra le classi dirigenti dei suoi partiti, invece di trovare una persona capace di essere motore e veicolo di cambiamenti, ci si accoltella per avere un posto al sole, lasciando nelle mani del leader della sponda opposta le redini del paese (il cui partito più grande, fatto 100 tutti gli aventi diritto al voto, e non solo chi al seggio va effettivamente a votare, ha la fiducia di appena un italiano su tre, nell’ultima tornata anche molto meno).

Non ci si accorge che nel mondo le sinistre hanno avuto leader amati e osannati, sia per il loro appeal mediatico, sia per le alte capacità di gestione della cosa pubblica. Non si può relegare ad altro mondo (se non a Terzo Mondo) quello che ha fatto Schoereder in Germania, Mitterand in Francia, Kennedy e Obama negli USA, la famiglia Gandhi-Nehru in India.

Alla sinistra italiana vorrei consigliare di studiare un leader del recente passato e del lontano geografico, che ha lasciato questo mondo, per il probabile prossimo, qualche mese fa. Si chiamava Raul e di cognome faceva Alfonsin. Portò un paese dal baratro del nichilismo assoluto alla democrazia, dopo la follia di una dittatura che aveva imposto a molti suoi cittadini la tortura, la cultura del sospetto, la morte, la distruzione dello stato con una guerra insensata quanto allucinante contro il Regno Unito.
Traghettò un popolo alla riconciliazione dopo l’umiliante trattamento di un cerchia di sanguinari, e per la prima vera volta fece capire loro l’importanza della libertà e della democrazia, fonte politica per la crescita sociale, economica e personale nel mondo moderno.
L’Argentina con Alfonsin, capì che si poteva avere un leader, che non fosse necessariamente un padre padrone, come era stato decenni prima il militare populista Peron, e che infondere la speranza, il sorriso, la capacità di guardare negli occhi le folle e commuoversi, non è una cosa di cui vergognarsi, ma è una cosa di cui andare fieri.

Ho visto il primo discorso di insediamento di Alfonsìn alla Casa Rosada nel 1983, “la casa esta en orden!” Ho visto Raul con gli occhi pieni di lacrime in quel video, le stesse lacrime, che il suo popolo ha riversato sul suo feretro, in una Buenos Aires vestita dignitosamente a lutto il giorno del suo funerale. Avere un leader non è peccato!
Que viva Raul!