Sulla scia della riflessione legata ai libri che potenzialmente potrebbero cambiare (o meno) il lettore (qui), grazie agli interventi nei commenti, è arrivata anche una sollecitazione che ho reputato interessante da parte di “Roberto” e che merita attenzione. E se invece dei libri parlassimo dei film?

Questa volta pero’ non vorrei lanciare lo stesso quesito creato per i libri, ma riportare una lista molto breve, non più di 5, di film che effettivamente hanno lasciato dentro di me un seme (anche se non saprei dire se ha germogliato). La lista è redatta in ordine di memoria, quindi non è da intendersi come classifica.

C’era una volta in America di Segio Leone (1984).

Sono cresciuto (come la stragrande dei quarantenni uomini di oggi) con i western del cineasta romano. Ho adorato i suoi film fino a vederli decine e decine di volte. Saprei recitare a memoria intere battute dei suoi western. I suoi personaggi hanno permeato il mio inconscio, specie quando ero fanciullo ed adolescente. Ad oggi non saprei come posizionarmi nei riguardi del cinema di Leone. E’ molto probabile che crescendo io abbia maturato altri gusti o è anche possibile che alcuni suoi film, dopo averli visti e rivisti li trovi oggi se non noiosi con un forte sentore di già visto. Tra i film che non credo rivedro’ mai più, ma che reputo importanti nella mia formazione devo necessariamente includere l’ultimo di Leone. Un film che era leggenda ancor prima che uscisse nelle sale e che rimase per me tale, che con Leone ero cresciuto, fino alla sua avvenuta visione nel 1998 (se non ho sbagliato i miei calcoli). Perchè mi lascio’ il segno? Lo amai per via della sua scomposizione temporale, per quella “narrazione” fatta su più piani temporali che si intersecavano, in cui la guida narrativa era rappresentato dagli stati d’animo di Noodles. Il tempo che si dilatava e si ritraeva in associazione alla memoria, nella ricerca a volte cupa, a volte disperata e diafana di quel tempo perso che il protagonista cercava di ritrovare, tempo che spesso era sinonimo, nel film, soprattutto con amicizia. C’era una volta in America, è il mantra/ossimoro di Proust che diventa cinema. A Proust e Leone ho dedicato molto tempo. La ricerca del tempo perduto (con loro o loro malgrado), mi impone di lasciarmeli alle spalle.

La doppia vita di Veronica di Krysztof Kieslowski (1991).

Film visto per la prima volta nei cineforum organizzati al Politecnico di Torino, se anche qui la memoria non mi fa scherzi, l’anno di grazia doveva essere il 2001. Fu il primo film che vidi del regista polacco e lo trovai da subito ammagliante, onirico, ai limiti del mistico. Lo amaii e lo amo tuttora, e mi piacerebbe rivederlo per il suo taglio totalmente irrazionale e di apparente casualità, che lega le due protagoniste in una doppia storia che ha non più di due punti di tangenza. La doppia vita è un film sul non detto, perchè indicibile, ma che cio’ nonostante avviene e puo’ avverarsi. E’ un film fluido a tratti d’acqua di fiume. Devi immergerti nella corrente e farti trascinare, cosi’ come aveva fatto Veronique, nel vedersi riflessa in Weronika, salvandosi. E’ laicamente un film sul mistero, e nonostante Kieslowski ne abbia girati tanti, anche a vario titolo simili, a mio avviso questo, insieme al primo capitolo del Decalogo (Non avrai altro Dio all’infuori di me) resta la punta ineguagliata della sua parabola artistica. Cinque anni dopo la sua visione, mentre passeggiavo per Buenos Aires, mi imbattei “per caso” in una mostra fotografica a lui dedicata nel quartiere di Palermo. Tre le immagini affisse ne ricordo una in particolare.. era una immagine di una stradina di Parigi con i fiori rossi sui balconi ed un barbone disteso per terra sull’uscio di un portone molto simile ad una strada di Buenos Aires che avevo visto qualche anno prima. L’anno dopo a Parigi, ancora per “caso”, mi trovai sorprendentemente di fronte a quella strada da lui fotografata, chissà quanti anni prima. Era nel quartiere latino, a pochi passi da square Vermenouze. Le rose rosse erano “ancora” sui balconi, il barbone “era ancora” sullo stesso uscio.

The addiction di Abel Ferrara (1994).

Resta ad oggi una delle esperienze personali visive più sconvolgenti che ho potuto avere grazie alla settima arte, superiore al seppur estremo e controverso Crash di David Croenenberg, e nonostante sia un parere personale, credo che difficilmente negli ultimi anni sia stato realizzato un film che raggiunge le vette di visionarietà e disgusto che raggiunse Ferrara in quella occasione. Un film sul male, ma soprattutto sull’attrazione e sulla sensualità che il male ha verso gli esseri umani. Una vivisezione intellettuale, ma alla fine anche visiva, seppur mediata da tante metafore e rimandi filosofici, degli aspetti più torbidi che ci accompagnano e spesso sono annidati nella nostra ombra. Come scrissi tantissimi anni fa alla presentazione di questo blog, se oggi scrivo (seppur in un blog semisconosciuto), lo devo a quel film. Scrittura come terapia per venire a contatto con parti di me che non conosco/evo e che diversamente non riuscirei a conoscere. Credo che questo film, mi abbia effettivamente cambiato, sono molto sicuro che se non lo avessi visto, la mia vita sarebbe stata molto diversa.

In the mood for love di Wong Kar-wai (2000).

Questo film riuscii a vederlo al cinema, ricordo al Valdocco a Torino, nel suo anno di uscita nelle sale italiane. Ricordo poco della trama, anche perchè non vi era un grande intreccio da raccontare. Si narrava di una storia d’amore nella Hong Kong britannica degli anni ’60; storia mai consumata eppure in qualche modo vissuta. Il gioco dei desideri che si amplificava e spesso tendeva a trasformare e trasfigurare la realtà. L’amor che nulla ha amato e che per questo riesce a perdonare. Lessi la storia di Chan e Chow come una versione moderna e sobria, ma non per questo casta e priva di complicazioni, di Paolo e Francesca. Fu una porta che si apriva sull’Asia, un continente che imparai poi a conoscere grazie ad alcuni saggi e che purtroppo non ho ancora avuto modo di visitare.

Il figlio della sposa di Juan Josè Campanella (2001).

Un film sussurrato, lieve, pieno di speranza e tanta tristezza. Riassume in sè tutti gli elementi dei film precedenti: il recupero della memoria del protagonista Rafael, come il Noodles di C’era una volta, la catarsi nel binomio caso/destino come nel caso de La Doppia vita di Veronica, l’apatia e il crollo iniziale nel nichilismo (seppur senza le implicazioni macabre) come nel caso di Kathleen di “The addiction”, l’amore non vissuto, la lontananza dagli altri come In the mood for love. Lo reputo il film che mi ha accompagnato nell’età adulta, spiegando come il disincanto della gioventu’ debba necessariamente fare posto alla ponderatezza dell’età adulta e che i ricordi del passato debbano essere calibrati e misurati per evitare che prendano il sopravvento sul presente, un film che mi ha colloca a metà, quando vedi che molti di coloro che hai amato stanno andando via e molti di coloro che “stanno arrivando” hanno bisogno di te. Una delle tante (sconosciute qui in Italia) perle del cinema argentino.

Per chi vuole lasciare la propria lista dei 5 film che hanno lasciato un segno o commentare questi, sarà il/la benvenuto/a.